D: buon giorno signor Fazizi, sono Sansubo della Compagnia delle Zattere Alate
R: la aspettavo, si sieda.
D: cosa pensa che le chiederebbe la gente se potesse aprire le sue celle e parlarle come l'urlo straziante della madre derubata?
R: probabilmente... Bill, giusto?
D: Kaganame, veramente.
R: oh certo, sia tranquillo. Dicevo che probabilmente farebbe appunti sul mio uso degli avverbi di modo, credo. Si arrampicherebbero fino in cima a quelle sciocche colonne, finché tutto intorno a loro sarà intriso di sabbia ariana. Capisce, Bill?
D: bene, ora andiamo sul difficile, John.
R: ricordo bene quell'estate Bill, il caldo era forte e noi piccoli e deboli. Morimmo una notte di luglio, inondati di perfidi sudori agrodolci, bruciati dalla nefandezza per niente riservata della nostra ascesa.
D: ma l'agone era pulito, se non sbaglio.
R: purtroppo è così.
D: l'altro giorno, lei ha parlato degli sbalzi ginnasici tra i capelli di Friso. Vuole parlarcene, John?
R: no. Mi accontenterò di dipingerle l'affresco dei miei fallimenti: un'opera mastodontica nel suo apparire incerta e banale, ma vera come la più finta delle menzogne.
D: cosa pensa del citazionismo?
R: in generale o nella sua morsa più rastremata?
D: come vuole, maestro.
R: mio caro Bill, maestro è chi insegna, io smonto. Mi sfoglio e mi disperdo ogni giorno, per sempre, per l'eternità. E un giorno, quando mi spegnerò, voi crederete che le mie pile, da qualche parte, continueranno a bruciare di energia e fuoco, ma non sarà così. Non siamo fanciulli.
D: e cosa siamo, allora, John?
R: se rientrasse nei miei propositi proporre l'avrei già fatto. Ma il vuoto resta vacuo anche con le più belle forme e piume, niente può scalfirlo. Ed è niente ciò che io propongo.
D: grazie ancora della sua disforia congiunta, John!
R: a presto, Zafifi.
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