sabato 31 marzo 2012

Atlantic City 1224

Le nuvole sopra di me correvano veloci, bianche sullo sfondo verde del mare in cui banchi di pesci nuotano, si sfiorano, fanno l'amore e la cacca. Camminavo su ciò che restava del viale accanto al porto Beccati questo tramonto, Los Angeles. Pensavo molto a Los Angeles in quel periodo, ma volevo andare a New York, volevo infilarmi in uno di questi posti fumosi dove un negro batte su un piatto e altri due stronzi fingono di fare musica. Quello è Jazz, la suprema arte, chiamarlo musica significa sminuirlo.

Il mio soggiorno newyorkese non mi aveva soddisfatto, fuggivo come uno che fugge da sé, ma io ero in treno e questo aumentava di molto la mia velocità. Le rotaie friggevano sotto le ruote, incandescenti tizzoni d'argilla piovevano sui passanti, li vedevo e pensavo Magari ci fosse il vagone ristorante. La fame mi lacerava, ma io laceravo il silenzio ruttando più forte di quanto il texano affianco a me potesse russare Perdoni se l'ho svegliata, sua moltitudine! E riprendeva il sonno come il più tenero dei bambini, quello che vorresti gettare nel pentolone e mangiare con ketchup e senape. Intanto morivo su un sedile, poi giravo un poco, mi attaccavo al finestrino per evitare il controllore, il bigliettaio, la signora delle pulizie, il macinapepe e la serva di Tuxedo.

Aprile, dolce dormire. Mi scaravento giù per le scale con le mutande strappate - le portavo in testa all'epoca, il motivo è molto semplice: non c'è - entro in sala e grido Buon anno! ai sacchetti di sangue che dovevo consegnare all'ospedale. Facevo dei lavori degradanti, ma che mi permettessero di poter conservare la mia libertà, che non mi vincolassero con strane responsabilità di cui non ho mai avvertito il bisogno. Cercavo di usare la bicicletta, perché su quella ci sapevo andare senza problemi e non mi vincolava come un'automobile. Prendevo le sacche dalla "clinica" di L.T. - a distanza di tutti questi anni ancora non vuole che faccia il suo nome, forse teme che qualcuno vada a riesumarlo per sodomizzarlo o sfondargli il cranio con una vanga - e le portavo all'ospedale pubblico nel quartiere povero. Cioè il quartiere negro. Tutte le case erano di proprietà di negri lì, ma ormai ci abitavano solo bianchi troppo grassi per respirare da soli con figli che rotolavano anziché correre.

C'era una strana usanza in paese, si chiamava "Accendi il culo della cameriera", un gioco molto divertente. Mentre la tizia prendeva le ordinazioni le si avvicinava la sigaretta alla gonna (i più arditi riuscivano a farlo con le mutandine) e la si guardava ballare cercando di spegnere le fiamme col solo movimento - era l'unico modo consentito. Anche per questo il lavoro all'ospedale non mancava mai; e neanche ai pompieri.

Mi piaceva svegliarmi quando capitava anche nei giorni in cui avevo orari da rispettare. Chi sono loro per pretendere rispetto senza darmene? Avete mai visto un orologio fermarsi a salutarvi o stare in silenzio mentre parlate? Che vadano al diavolo! Così aprivo gli occhi e guardavo il soffitto e pensavo L'ho proprio dipinto bene! Poi un cane mi pisciava sui piedi e mi ricordavo che non avevo una casa: inconvenienti del mestiere. Cercavo gli occhiali tra la merda e i cadaveri e andavo a fare colazione al bar più caro della città. Volevo molto bene a quella bettola: cibo non raffinato, conto non salato. Le ultime volte stava cambiando qualcosa, carta da parati nuova, lampadari funzionanti, cessi puliti, niente più topi e io che avrei dovuto mangiare? Non potevo vivere di Tetley, così, senza troppi ripensamenti, o forse con troppe poche riflessioni in merito, sicuramente senza salutare, smisi di andarci.

Avevo vissuto più di quanto mi sarei aspettato, molto meglio di qualsiasi previsione. Così, forse con troppa classe, semplicemente partii.

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